di Francesco Staffa
∞
Disinteressato a quella propaganda, l’uomo fissa l’immagine sul giornale. Non legge il titolo, né si sofferma sull’articolo. Come in uno specchio, però, riflette lo sguardo sul relitto arrugginito che si tiene a galla per inerzia, stracarico di membra aggrovigliate. Corpi ammassati, scuri, protetti da ingombranti salvagente. Donne e uomini. Gli occhi iniettati di terrore. Tra loro spiccano decine di magliette rosse. Quelle dei bambini. Affidati alla speranza di un colore acceso che li renda riconoscibili in quel magma cobalto che è il Mediterraneo, le cui acque, per alcuni, si tramutano in una tomba liquida, per altri, in una sacca amniotica.
L’uomo non indugia oltre. Distoglie lo sguardo. Proprio lui, che ha vissuto una sorte molto simile. Anche se, a differenza di quelle persone, gli è stata risparmiata l’incognita della traversata. Lui, un tempo ormai lontano, la vita se l’è giocata sulla terraferma. Lui, un sopravvissuto perso tra le rovine del proprio passato, non riesce a sostenere quella vista.
«Amore, io sono pronta».
Splendida nel suo abito da sera, la donna si affaccia sulla terrazza a richiamarlo.
L’uomo la cinge e la accompagna a ridosso del davanzale. Guardano in basso la piazza gremita di gente. I cocktail e le bevande scorrono come sangue nelle vene, così come le urla e le risate. Salgono fino alla balaustra dove la coppia respira l’aria della sera. Tuttavia, quel vociare accompagnato dal tintinnare di bicchieri e piatti non riesce a coprire le urla che l’uomo ascolta nella sua mente. Né la brezza riesce a cancellare il caldo opprimente e umido che sfiora la sua pelle. È altrove, l’uomo. Legato mani e piedi, nudo, in una stanza buia senza finestre. Altri corpi sono appesi come il suo. Il sangue rappreso, le ferite che bruciano, il volto gonfio. Ha due costole rotte. Regalo dei tubi di ferro che periodicamente lo colpiscono senza preavviso. E quella richiesta costante di soldi, il riscatto per la sua liberazione, ripetuta come un mantra infernale. Ode i gemiti provenire dalle carcasse sospese intorno. Lui è semicosciente. Poi le grida delle donne al di là della parete. Mentre lo trascinavano, ne ha viste alcune, a terra, con branchi di quattro o cinque intorno che si davano il cambio tirandosi su i pantaloni. Di umano in quell’edificio sono rimaste solo la paura e la puzza di escrementi, sudore e sangue che impregnano le mura.
L’uomo trema.
«Che hai? Non ti senti bene?», gli domanda la donna.
«Sto bene. Solo pensieri».
«Ti preoccupa qualcosa?»
«Nulla che non si possa risolvere. Anzi».
Manca solo un ultimo passo, sono finalmente giunto alla fine del viaggio, pensa.
«Stiamo per tornare a casa», dice. «Sei contenta?»
La donna non risponde. Sospira mentre guarda le colossali figure in marmo adagiate ai loro piedi e l’obelisco rigido puntato verso il cielo come uno smilzo Vostok 1 pronto al decollo. Si sofferma sul gigante dal capo velato da un panneggio. Del fiume che rappresenta, oggi si conoscono le sorgenti e la donna avrebbe voglia di togliere quel drappo per affermare anche lei le proprie origini. Anche se il Burundi non le manca. L’ha lasciato in fasce e non ci ha mai più messo piede. Tuttavia, è da lì che viene e non lo vuole dimenticare.
«Non vuoi tornare a Parigi?»
«Certo», risponde. «Ti ho sempre seguito in tutti i tuoi spostamenti, anche quelli più lunghi e i bambini con noi. Qualche mese in più non cambierebbe nulla».
L’uomo annuisce. La stringe e guarda il cielo, così diverso dalla coltre sterminata di stelle che ha imparato a distinguere nel tempo. Di nuovo il ricordo lo assale. La foresta, stavolta. L’umidità, la fame. Sono in due. E lui deve prendersi cura di sé e dell’altro corpo che trasporta, senza sapere che da quella protezione nascerà la sua fortuna.
«A che ora dobbiamo essere dal Ministro?», chiede la donna.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo. Non ti preoccupare. I ragazzi?»
«Hanno già mangiato e stanno giocando di là».
Sono più piccoli di quanto non fosse lui quando è partito la prima volta. Molto più piccoli.
Sente una breve fitta al braccio. Lì dove la lama del macete ha reciso il legamento. Ogni tanto si riaffaccia il dolore ma cerca di ignorarlo. Non può più usare l’arto come una volta, eppure non se ne cura e prova una leggera gioia pensando che ai suoi figli sia toccata una sorte migliore.
«Pensavo che potremmo far concludere loro l’anno scolastico qui. Sempre che tu non debba tornare di corsa. Magari potresti fermarti per un po’. È tanto che non ti prendi una pausa. Che ne pensi?»
«Perché?»
«Non so. Non si sta poi così male qui e per loro sarebbe un cambiamento più soft».
«Per quello non ci sono problemi. La scuola internazionale...»
«Sì, lo so. Ma che fretta abbiamo? Ormai ci siamo, no? Potresti riposarti e trascorrere un po’ di tempo con i bambini».
Sembra che non voglia tornare a casa. E del resto per lui è lo stesso. Casa l’ha lasciata da tempo ormai. Tutti i posti in cui ha vissuto hanno solo marcato o rimarginato le sue ferite. Casa l’ha persa trentacinque anni fa. E da allora non ha mai smesso di cercarla pur sapendo che avrebbe ritrovato solo macerie. Tuttavia, ha bisogno di sbatterci contro, di contemplarle e di lasciarle riposare nella polvere.
«Va bene. Pensiamoci», dice, aspirando il profumo della donna. La mente proiettata altrove, in avanti stavolta. Verso un destino prossimo, indirizzata ai brevi passi che mancano per raggiungerlo.
di Francesco Staffa
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Disinteressato a quella propaganda, l’uomo fissa l’immagine sul giornale. Non legge il titolo, né si sofferma sull’articolo. Come in uno specchio, però, riflette lo sguardo sul relitto arrugginito che si tiene a galla per inerzia, stracarico di membra aggrovigliate. Corpi ammassati, scuri, protetti da ingombranti salvagente. Donne e uomini. Gli occhi iniettati di terrore. Tra loro spiccano decine di magliette rosse. Quelle dei bambini. Affidati alla speranza di un colore acceso che li renda riconoscibili in quel magma cobalto che è il Mediterraneo, le cui acque, per alcuni, si tramutano in una tomba liquida, per altri, in una sacca amniotica.
L’uomo non indugia oltre. Distoglie lo sguardo. Proprio lui, che ha vissuto una sorte molto simile. Anche se, a differenza di quelle persone, gli è stata risparmiata l’incognita della traversata. Lui, un tempo ormai lontano, la vita se l’è giocata sulla terraferma. Lui, un sopravvissuto perso tra le rovine del proprio passato, non riesce a sostenere quella vista.
«Amore, io sono pronta».
Splendida nel suo abito da sera, la donna si affaccia sulla terrazza a richiamarlo.
L’uomo la cinge e la accompagna a ridosso del davanzale. Guardano in basso la piazza gremita di gente. I cocktail e le bevande scorrono come sangue nelle vene, così come le urla e le risate. Salgono fino alla balaustra dove la coppia respira l’aria della sera. Tuttavia, quel vociare accompagnato dal tintinnare di bicchieri e piatti non riesce a coprire le urla che l’uomo ascolta nella sua mente. Né la brezza riesce a cancellare il caldo opprimente e umido che sfiora la sua pelle. È altrove, l’uomo. Legato mani e piedi, nudo, in una stanza buia senza finestre. Altri corpi sono appesi come il suo. Il sangue rappreso, le ferite che bruciano, il volto gonfio. Ha due costole rotte. Regalo dei tubi di ferro che periodicamente lo colpiscono senza preavviso. E quella richiesta costante di soldi, il riscatto per la sua liberazione, ripetuta come un mantra infernale. Ode i gemiti provenire dalle carcasse sospese intorno. Lui è semicosciente. Poi le grida delle donne al di là della parete. Mentre lo trascinavano, ne ha viste alcune, a terra, con branchi di quattro o cinque intorno che si davano il cambio tirandosi su i pantaloni. Di umano in quell’edificio sono rimaste solo la paura e la puzza di escrementi, sudore e sangue che impregnano le mura.
L’uomo trema.
«Che hai? Non ti senti bene?», gli domanda la donna.
«Sto bene. Solo pensieri».
«Ti preoccupa qualcosa?»
«Nulla che non si possa risolvere. Anzi».
Manca solo un ultimo passo, sono finalmente giunto alla fine del viaggio, pensa.
«Stiamo per tornare a casa», dice. «Sei contenta?»
La donna non risponde. Sospira mentre guarda le colossali figure in marmo adagiate ai loro piedi e l’obelisco rigido puntato verso il cielo come uno smilzo Vostok 1 pronto al decollo. Si sofferma sul gigante dal capo velato da un panneggio. Del fiume che rappresenta, oggi si conoscono le sorgenti e la donna avrebbe voglia di togliere quel drappo per affermare anche lei le proprie origini. Anche se il Burundi non le manca. L’ha lasciato in fasce e non ci ha mai più messo piede. Tuttavia, è da lì che viene e non lo vuole dimenticare.
«Non vuoi tornare a Parigi?»
«Certo», risponde. «Ti ho sempre seguito in tutti i tuoi spostamenti, anche quelli più lunghi e i bambini con noi. Qualche mese in più non cambierebbe nulla».
L’uomo annuisce. La stringe e guarda il cielo, così diverso dalla coltre sterminata di stelle che ha imparato a distinguere nel tempo. Di nuovo il ricordo lo assale. La foresta, stavolta. L’umidità, la fame. Sono in due. E lui deve prendersi cura di sé e dell’altro corpo che trasporta, senza sapere che da quella protezione nascerà la sua fortuna.
«A che ora dobbiamo essere dal Ministro?», chiede la donna.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo. Non ti preoccupare. I ragazzi?»
«Hanno già mangiato e stanno giocando di là».
Sono più piccoli di quanto non fosse lui quando è partito la prima volta. Molto più piccoli.
Sente una breve fitta al braccio. Lì dove la lama del macete ha reciso il legamento. Ogni tanto si riaffaccia il dolore ma cerca di ignorarlo. Non può più usare l’arto come una volta, eppure non se ne cura e prova una leggera gioia pensando che ai suoi figli sia toccata una sorte migliore.
«Pensavo che potremmo far concludere loro l’anno scolastico qui. Sempre che tu non debba tornare di corsa. Magari potresti fermarti per un po’. È tanto che non ti prendi una pausa. Che ne pensi?»
«Perché?»
«Non so. Non si sta poi così male qui e per loro sarebbe un cambiamento più soft».
«Per quello non ci sono problemi. La scuola internazionale...»
«Sì, lo so. Ma che fretta abbiamo? Ormai ci siamo, no? Potresti riposarti e trascorrere un po’ di tempo con i bambini».
Sembra che non voglia tornare a casa. E del resto per lui è lo stesso. Casa l’ha lasciata da tempo ormai. Tutti i posti in cui ha vissuto hanno solo marcato o rimarginato le sue ferite. Casa l’ha persa trentacinque anni fa. E da allora non ha mai smesso di cercarla pur sapendo che avrebbe ritrovato solo macerie. Tuttavia, ha bisogno di sbatterci contro, di contemplarle e di lasciarle riposare nella polvere.
«Va bene. Pensiamoci», dice, aspirando il profumo della donna. La mente proiettata altrove, in avanti stavolta. Verso un destino prossimo, indirizzata ai brevi passi che mancano per raggiungerlo.