Il cavallo scosso dell'IA
Di Filippo Lubrano
∞
Le intelligenze artificiali stanno trasformando il mondo, soprattutto quello creativo. Ma la vera rivoluzione avverrà solo quando le briglie del processo artistico saranno lasciate in mano alla nuova forza creatrice: quella macchinica.
Midjourney, Dall-E, Stable Diffusion, Nightcafe, Pixray. A ognunǝ l’IA che gli assomiglia di più – e d’altronde, più le utilizziamo più siamo noi alla fine ad assomigliare a loro.
Il salto paradigmatico dei tool di generazione di immagini con intelligenze artificiali è irrotto sulla scena creativa mondiale e del nostro Paese con l’effetto polarizzante che ormai ogni discontinuità crea nella società. Da un lato lз luddistз timorosз che questo sia l’ennesimo caso di “tecnologia che ci ruberà il lavoro”, dall’altro lз entusiastз che hanno utilizzato quella stessa tecnologia per inventarsi dei lavori nuovi che rimappano i confini e il senso stesso delle arti: Joy Buolamwini e la sua battaglia transmediale contro i bias razzisti delle IA; artistз concettuali come la coreo-americana Sougwen Chung; il turco Refik Anadol; il londinese Scott Eaton; i deliri pionieristici di Ilian Manouach, a ritagliarsi indubbiamente un ruolo significativo in questo spazio.
Nella mia cerchia di amicз, in piena doppia crisi identitaria da gig-economy e mezza età, sono diversз che hanno avvertito un calo di richieste di commesse grafiche da parte dellз proprз clienti. «Normale», mi dicono, «ora anche loro sono in grado di smanettare da soli su qualche programma che riesce a interpretare le loro altrimenti incomprensibili volontà». Ora, può essere che parte dellз miз amicз avrebbero avuto un calo di commesse a prescindere, perché, come successo dopo il covid, è più comodo centralizzare la colpa dei propri fallimenti su un unico capro espiatorio.
Ma è indubbio che le intelligenze artificiali stiano portando la competizione non solo su un altro livello, ma totalmente su un piano parallelo. Mi vengono in mente le parole di Lee Sedok, il campione mondiale di Go, il gioco che prevede un numero di mosse possibili maggiore rispetto al numero di atomi presenti nell’universo visibile, sconfitto nel 2016 dall’intelligenza artificiale AlphaGo, a fine incontro: «A un certo punto ha fatto una mossa che non aveva senso. Era qualcosa che un umano mai avrebbe potuto pensare. Una ventina di mosse dopo, ho capito cos’aveva fatto. E che ero fottuto». Allo stesso modo, il senso di quello che sta avvenendo nel settore dell’arte con l’avvento di queste tecnologie non è al momento comprensibile dalle nostre menti. Per quanto ci sforziamo di coniare nuovi vocaboli a ritmi sempre più elevati, per la felicità dei dizionari Webster e Treccani, la sensazione è che i vocaboli siano sempre inadatti, e troppo pochi: ne stretchiamo allora il significato, amplificando così la sensazione che siano inadatti.
Un primo smottamento su questo fronte era già avvenuto con l’arte digitale, che spostava l’abilità dell’artista dal piano manuale a quello delle competenze informatiche specialistiche, ma qui siamo su un pianeta totalmente diverso.
Oggi, l’evoluzione ci porta a dire che lз migliori artistз del futuro (solo del futuro?) non saranno quellз che disegneranno meglio (o se vogliamo, come già accade da tempo, che si contorneranno della migliore squadra di disegnatorз), ma quellз che scriveranno meglio gli script per stimolare una creatività artificiale terza, quella macchinica, appunto. Il ruolo dell’artista si ritrova così incapsulato in quello dellз scrittorз-programmatorз. Allз nuovз artistз non sono richieste oggi doti di creazione di un legame empatico con gli altri esseri umani, quanto piuttosto di comprensione, derivante da intuito o dalla forza bruta dei tentativi reiterati, delle logiche che animano le differenti release delle intelligenze artificiali.
Gli esperimenti più mirabili dal punto di vista strettamente artistico sono collezionati nelle varie gallerie su Instagram o in altre, navigabili e immersive, nei vari metaversi, molto più che nei goffi tentativi dellз curatorз umanз, troppo umanз, di intercettare alcuni progetti a loro modo di vedere significativi, per poter compiacere lз direttorз artisticз e poter smarcare la “pratica NFT”, e salire sul carro di carnevale dell’hype. Quanto visto finora, in realtà, come il MOCO di Barcellona o, ancora peggio, a Palazzo Strozzi, con l’imbarazzante parte immersiva a conclusione della, peraltro pregevole, mostra di Oliafur Eliasson, testimoniano quanto indietro sia ancora il mondo curatoriale nel comprendere quanto stia avvenendo in queste nuove dimensioni creative.
In pochз hanno provato a creare qualcosa di davvero nuovo e diverso, in questo senso. Nel desolante contesto italiano, mi sento di menzionare un progetto che ho molto amato, e che è stato purtroppo abbandonato troppo presto: quello di Liguria Scomparsa. In questo, l’amico Raffaele Alberto Ventura ha piegato le intelligenze di Midjourney alla creazione di una tempolinea parallela, ma credibilissima, che ha colmato lacune importanti a livello mitopoietico della mia cara regione natia, con il non trascurabile side-effect di funzionare peraltro da rivelatore di analfabetismi funzionali sui social network – non a caso, la pagina è disponibile solo sul social boomer per eccellenza: quello che inizia con la f.
Per il resto, il fenomeno della creazione è spesso fermo all’impulso primordiale di condividere con la propria cerchia di amicз gli artefatti artificiali, con la stessa in fondo tenera attitudine che porta lз bambinз a chiedere ai genitori di guardare cos’hanno disegnato. Il solo atto di assistere sulle pagine di Discord alla generazione delle immagini mentre si attende la consegna della propria crea un istinto alla competizione, che in taluni casi si ferma all’invidia ma in altre progredisce e matura in istigazione al miglioramento. Questa nascente competizione tra umani che si sentono proprietari delle immagini realizzate dall’IA, e che ne festeggiano le vittorie come fossero le proprie, mi ricorda l’imbarazzo che provo per quello che accade a Siena durante il Palio quando vince il cavallo scosso, ovvero quello che ha disarcionato lǝ propriǝ fantinǝ, e che triggera comunque le celebrazioni della contrada di cui porta le insigne. E qui viene il punto: perché se la gara è a comprendere quale input genera il miglior output delle IA, perché dobbiamo metterci in mezzo noi, e non lasciare il lavoro direttamente alle macchine? Chi meglio di loro conosce loro stesse, come direbbe Socrate? Forse perché noi siamo dotati di “coscienza”? Obiezione respinta, Vostro Onore, almeno fino a quando non ne sarà disponibile una definizione credibile e sensata.
La vera verità è che è molto più lecito aspettarsi che gli esperimenti più interessanti nascano proprio dal momento in cui la follia equestre delle intelligenze artificiali sarà lasciata libera di sgroppare, di creare, di profondersi in scelte e derive controintuitive, che mai ci saremmo illusi di prendere. Come per quella mossa di AlphaGo, che Lee Sedok ha capito venti mosse dopo, magari ne capiremo il senso tra un paio di decenni, o secoli, o mai: ma non è questo il punto, non siamo noi il punto, e questo da Copernico in avanti dovrebbe esserci chiaro.
Come successe in quel momento di glitch inquietante quando due chatbot di Facebook – ops, pardon, Meta – iniziarono a parlarsi in una lingua a noi incomprensibile, e lз scienziatз presз dal panico pensarono bene di staccare tutto.
Chissà, magari quella sera l’umanità, ancora una volta per codardia, ha perso l’occasione per far nascere una nuova civiltà, che finirebbe per disarcionarci una volta per tutte dalla sella di questo pianeta che stiamo facendo definitivamente schiantare.
Il cavallo scosso dell'IA
Di Filippo Lubrano
∞
Le intelligenze artificiali stanno trasformando il mondo, soprattutto quello creativo. Ma la vera rivoluzione avverrà solo quando le briglie del processo artistico saranno lasciate in mano alla nuova forza creatrice: quella macchinica.
Midjourney, Dall-E, Stable Diffusion, Nightcafe, Pixray. A ognunǝ l’IA che gli assomiglia di più – e d’altronde, più le utilizziamo più siamo noi alla fine ad assomigliare a loro.
Il salto paradigmatico dei tool di generazione di immagini con intelligenze artificiali è irrotto sulla scena creativa mondiale e del nostro Paese con l’effetto polarizzante che ormai ogni discontinuità crea nella società. Da un lato lз luddistз timorosз che questo sia l’ennesimo caso di “tecnologia che ci ruberà il lavoro”, dall’altro lз entusiastз che hanno utilizzato quella stessa tecnologia per inventarsi dei lavori nuovi che rimappano i confini e il senso stesso delle arti: Joy Buolamwini e la sua battaglia transmediale contro i bias razzisti delle IA; artistз concettuali come la coreo-americana Sougwen Chung; il turco Refik Anadol; il londinese Scott Eaton; i deliri pionieristici di Ilian Manouach, a ritagliarsi indubbiamente un ruolo significativo in questo spazio.
Nella mia cerchia di amicз, in piena doppia crisi identitaria da gig-economy e mezza età, sono diversз che hanno avvertito un calo di richieste di commesse grafiche da parte dellз proprз clienti. «Normale», mi dicono, «ora anche loro sono in grado di smanettare da soli su qualche programma che riesce a interpretare le loro altrimenti incomprensibili volontà». Ora, può essere che parte dellз miз amicз avrebbero avuto un calo di commesse a prescindere, perché, come successo dopo il covid, è più comodo centralizzare la colpa dei propri fallimenti su un unico capro espiatorio.
Ma è indubbio che le intelligenze artificiali stiano portando la competizione non solo su un altro livello, ma totalmente su un piano parallelo. Mi vengono in mente le parole di Lee Sedok, il campione mondiale di Go, il gioco che prevede un numero di mosse possibili maggiore rispetto al numero di atomi presenti nell’universo visibile, sconfitto nel 2016 dall’intelligenza artificiale AlphaGo, a fine incontro: «A un certo punto ha fatto una mossa che non aveva senso. Era qualcosa che un umano mai avrebbe potuto pensare. Una ventina di mosse dopo, ho capito cos’aveva fatto. E che ero fottuto». Allo stesso modo, il senso di quello che sta avvenendo nel settore dell’arte con l’avvento di queste tecnologie non è al momento comprensibile dalle nostre menti. Per quanto ci sforziamo di coniare nuovi vocaboli a ritmi sempre più elevati, per la felicità dei dizionari Webster e Treccani, la sensazione è che i vocaboli siano sempre inadatti, e troppo pochi: ne stretchiamo allora il significato, amplificando così la sensazione che siano inadatti.
Un primo smottamento su questo fronte era già avvenuto con l’arte digitale, che spostava l’abilità dell’artista dal piano manuale a quello delle competenze informatiche specialistiche, ma qui siamo su un pianeta totalmente diverso.
Oggi, l’evoluzione ci porta a dire che lз migliori artistз del futuro (solo del futuro?) non saranno quellз che disegneranno meglio (o se vogliamo, come già accade da tempo, che si contorneranno della migliore squadra di disegnatorз), ma quellз che scriveranno meglio gli script per stimolare una creatività artificiale terza, quella macchinica, appunto. Il ruolo dell’artista si ritrova così incapsulato in quello dellз scrittorз-programmatorз. Allз nuovз artistз non sono richieste oggi doti di creazione di un legame empatico con gli altri esseri umani, quanto piuttosto di comprensione, derivante da intuito o dalla forza bruta dei tentativi reiterati, delle logiche che animano le differenti release delle intelligenze artificiali.
Gli esperimenti più mirabili dal punto di vista strettamente artistico sono collezionati nelle varie gallerie su Instagram o in altre, navigabili e immersive, nei vari metaversi, molto più che nei goffi tentativi dellз curatorз umanз, troppo umanз, di intercettare alcuni progetti a loro modo di vedere significativi, per poter compiacere lз direttorз artisticз e poter smarcare la “pratica NFT”, e salire sul carro di carnevale dell’hype. Quanto visto finora, in realtà, come il MOCO di Barcellona o, ancora peggio, a Palazzo Strozzi, con l’imbarazzante parte immersiva a conclusione della, peraltro pregevole, mostra di Oliafur Eliasson, testimoniano quanto indietro sia ancora il mondo curatoriale nel comprendere quanto stia avvenendo in queste nuove dimensioni creative.
In pochз hanno provato a creare qualcosa di davvero nuovo e diverso, in questo senso. Nel desolante contesto italiano, mi sento di menzionare un progetto che ho molto amato, e che è stato purtroppo abbandonato troppo presto: quello di Liguria Scomparsa. In questo, l’amico Raffaele Alberto Ventura ha piegato le intelligenze di Midjourney alla creazione di una tempolinea parallela, ma credibilissima, che ha colmato lacune importanti a livello mitopoietico della mia cara regione natia, con il non trascurabile side-effect di funzionare peraltro da rivelatore di analfabetismi funzionali sui social network – non a caso, la pagina è disponibile solo sul social boomer per eccellenza: quello che inizia con la f.
Per il resto, il fenomeno della creazione è spesso fermo all’impulso primordiale di condividere con la propria cerchia di amicз gli artefatti artificiali, con la stessa in fondo tenera attitudine che porta lз bambinз a chiedere ai genitori di guardare cos’hanno disegnato. Il solo atto di assistere sulle pagine di Discord alla generazione delle immagini mentre si attende la consegna della propria crea un istinto alla competizione, che in taluni casi si ferma all’invidia ma in altre progredisce e matura in istigazione al miglioramento. Questa nascente competizione tra umani che si sentono proprietari delle immagini realizzate dall’IA, e che ne festeggiano le vittorie come fossero le proprie, mi ricorda l’imbarazzo che provo per quello che accade a Siena durante il Palio quando vince il cavallo scosso, ovvero quello che ha disarcionato lǝ propriǝ fantinǝ, e che triggera comunque le celebrazioni della contrada di cui porta le insigne. E qui viene il punto: perché se la gara è a comprendere quale input genera il miglior output delle IA, perché dobbiamo metterci in mezzo noi, e non lasciare il lavoro direttamente alle macchine? Chi meglio di loro conosce loro stesse, come direbbe Socrate? Forse perché noi siamo dotati di “coscienza”? Obiezione respinta, Vostro Onore, almeno fino a quando non ne sarà disponibile una definizione credibile e sensata.
La vera verità è che è molto più lecito aspettarsi che gli esperimenti più interessanti nascano proprio dal momento in cui la follia equestre delle intelligenze artificiali sarà lasciata libera di sgroppare, di creare, di profondersi in scelte e derive controintuitive, che mai ci saremmo illusi di prendere. Come per quella mossa di AlphaGo, che Lee Sedok ha capito venti mosse dopo, magari ne capiremo il senso tra un paio di decenni, o secoli, o mai: ma non è questo il punto, non siamo noi il punto, e questo da Copernico in avanti dovrebbe esserci chiaro.
Come successe in quel momento di glitch inquietante quando due chatbot di Facebook – ops, pardon, Meta – iniziarono a parlarsi in una lingua a noi incomprensibile, e lз scienziatз presз dal panico pensarono bene di staccare tutto.
Chissà, magari quella sera l’umanità, ancora una volta per codardia, ha perso l’occasione per far nascere una nuova civiltà, che finirebbe per disarcionarci una volta per tutte dalla sella di questo pianeta che stiamo facendo definitivamente schiantare.